Il rumore del ring è sempre lo stesso.
Legno. Uno strano cigolio. Respiro. Attesa.
L’odore del sudore si mescola alla tensione.anche le corde sembrano emettere un suono. Sordo. Come se il ring fosse uno strumento. Infatti lo è…non nel senso musicale.
È mattina e una strana luce fa sembrare tutto più grande, più importante, più vero.
Ma è solo un’altra battaglia.
Eppure, ogni volta, sembra l’ultima.

Gerardo è salito sul ring con quella faccia da ragazzo che non ha ancora imparato a fingere.
Lì non c’era paura. C’era inesperienza, sì.
Quella che ti fa stringere troppo i pugni e dimenticare che il tempo, nel ring, non scorre come fuori.
Ha dato tutto, e qualcosa l’ha lasciato lì, in mezzo alle corde.
Non è stato sconfitto: ha solo consegnato il match nelle mani dell’avversario, come si consegna un foglio scritto troppo in fretta.
Ma dentro c’erano le parole giuste.
Solo che ancora non sa come leggerle.

Marina invece non ha fatto un passo indietro.
Io non ho saputo dirle di no.
Sapevo che non si era allenata e non era pronta per una gara così.
Ma mi ha guardato e mi ha chiesto di esserci.
E in quegli occhi ho visto qualcosa che va oltre la forma fisica: la voglia di mettersi in gioco, di capire dove si è arrivati e dove si può ancora andare.
Così eccoci, con una maturità che mi ha rassicurato più di mille round di preparazione.
Ha affrontato il match con lo spirito giusto, quello che rende grande uno sportivo anche quando perde ai punti.

Davide è stato un orgoglio.
Ha trovato davanti un avversario esperto, solido, di casa.
Non ha imposto il ritmo, ma ha avuto la forza di restare dentro il match.
Negli ultimi trenta secondi, quando molti si spengono, lui ha ridotto la distanza.
Ha mostrato che dentro di sé qualcosa si è acceso.
E so che, continuando così, troverà la versione migliore di sé.
Non quella che vince sempre, ma quella che non smette mai di crescere.

Viola è l’immagine della costanza.
Continua a essere un’atleta ammirevole — e lo dico da allenatore, ma anche da padre.
È sempre in palestra, sempre pronta, sempre con lo stesso entusiasmo.
Che vinca o perda, non cambia nulla: la rivedi il giorno dopo sul tappeto, con la stessa fame di imparare, con la stessa luce negli occhi.
Ha vinto ancora, sì, ma la verità è che lei vince ogni volta che sceglie di esserci.

Ludovica ha portato a casa un oro by No Show, ma questo non toglie niente al suo percorso.
È sempre presente, sempre disponibile a fare esperienza, a mettersi in gioco, a capire come migliorare.
E in questo sport, la disponibilità a imparare vale più di mille medaglie.

E poi c’è Alessandro.
Lui non ha vinto oggi — ha vinto il giorno in cui ha deciso di rimettersi in gioco dopo le delusioni.
Quel giorno in cui ha messo tutto nella borsa, e invece di lasciarla a casa, è tornato in palestra.
Certo, poi la borsa l’ha pure persa.
Ma va bene così.
Quando vinci una medaglia, i caschetti e i guantoni smarriti fanno meno male.
Perché capisci che la vera vittoria non è il podio: è tornare a crederci.
Alla fine, restano le facce stanche, le pacche sulle spalle, le mani che tremano ancora per l’adrenalina.
Restano i compagni che non combattono ma ci sono: Vito, Valerio, Samuele, sempre discreti, sempre presenti, fondamenta silenziose di un gruppo che cresce insieme.

E poi c’è Alfredo, il mio compagno d’avventura.
Con lui ogni trasferta diventa una storia, anche quando la stanchezza vince sulla voce e resta solo il sorriso.
Insieme impariamo ogni volta qualcosa: su noi stessi, sui ragazzi, su cosa vuol dire davvero allenare.
Il TNT Roma non è stato solo un torneo.
È stato un promemoria.
Un modo per ricordarci che non serve vincere per valere.
Che nessuno di noi fa un passo indietro.
Nemmeno quando sarebbe più comodo farlo.


