Il 1998 è l’anno in cui ho messo piede in Cina.
Il mio primo volo: Roma–Hong Kong.
Un biglietto pagato con mesi di risparmi dei miei genitori e qualche sponsor trovato da mio padre, che credeva nel campione italiano che ero diventato nella FIWUK, l’unica federazione all’epoca direttamente riconosciuta dal CONI.
Io combattevo nel Sanda, la kickboxing Cinese, venivo dalla kickboxing full contact, amavo il Kung Fu e volevo padroneggiare ogni forma di combattimento.



All’epoca, in Italia, disciplinavamo il combattimento con quattro fotografie stampate su riviste arrivate per posta.
I video? Cassette VHS ordinate con coupon ritagliati e attese infinite.
I costi? Esagerati, come le frise al pomodoro nei lidi ad Agosto.
Le arti marziali erano ancora cinema: Jackie Chan, Bruce Lee, e Karate Kid che rendeva il karate figo. Il Jeet Kune Do? Una rivoluzione.
In Cina, però, il wushu è il combattimento, erano già storia.
Mi aspettavo incensi, monaci che pregavano, the caldo servito nelle pause, inchini. Invece no.
La Chengdu Sport University era tutt’altro: scienza applicata al combattimento.
Sveglia presto, corsa. Colazione rapida. Poi palestra.
Allenamenti con una classe di fuori classe. Tutto scritto, tutto programmato. Tabelle. Modelli prestativi che già parlavano di alternanza dei carichi, scarichi e recupero. Didattica e metodologia dell’insegnamento.
E io che arrivavo da un’Italia convinta che bere durante gli allenamenti fosse debolezza.
Allenamenti che erano addestramenti.
Una selezione naturale.
Oggi li sento ancora nelle articolazioni, nei tendini, nei dischi vertebrali rimasti.
Qui invece acqua nelle pause, perché il corpo era macchina da alimentare, non da spremere a oltranza.
È lì che ho capito che il combattimento era più di una tradizione: era scienza, era futuro.
Chiamai casa tre volte in tutto il soggiorno: “Sono arrivato.” – “Sto bene.” – “Torno.”
Non solo perché certe esperienze non le puoi spiegare, le devi vivere, ma anche per il fusorario e perché per chiamare dovevi avere una scheda telefonica, digitare prima un numero, poi un altro, poi un codice di 21 cifre, infine il prefisso ed il numero di telefono.
Venti minuti per prendere la linea.
Troppi, per chi doveva inseguire in suo sogno.
Quel viaggio mi ha cambiato. Per sempre.
Nessun telefono. Nessun traduttore. Solo tanta voglia di imparare.


All’epoca si vociferava di un possibile riconoscimento olimpico del Taekwondo, ecco perché tanti del Sanda si allenavano anche per quello, pensai.

Oggi – World Games: la kickboxing in marcia verso l’Olimpo

Oggi, riguardando quelle pagine della mia vita, vedo la kickboxing finalmente nei World Games.
I World Games sono la nostra Olimpiade.
Il palcoscenico dove gli sport riconosciuti dal CIO, ma non ancora nel programma olimpico, si incontrano per misurarsi. Kickboxing, sambo e muay thai, discipline che condividono la stessa fame: dimostrare di meritare il posto tra i cinque cerchi.
Per la Federkombat , per la WAKO, per noi… è un passaggio obbligato. Un trampolino. Un segnale al mondo: siamo qui, ci siamo, meritiamo.
E vedere gli atleti italiani lì, sul podio, mi riempie d’orgoglio.
Perché prima ancora delle medaglie, il vero traguardo è esserci.
Vestire l’azzurro EA7.
Competere in quell’arena globale.


Complimenti agli azzurri
• Dario Di Falco, che nel Sambo -64 kg ha chiuso la sua corsa ai quarti di finale. Non è un risultato qualunque: è un segno di presenza, di lotta vera, in un palcoscenico durissimo.
• Francesca Ceci, bronzo nella -60 kg. Ma chiamarlo “accontentarsi” è riduttivo: a quei livelli una medaglia è un capolavoro, una battaglia vinta.
• Gabriele Lanzilao, argento nella -63 kg Point Fighting. Un argento che pesa come l’oro, meritato dal primo all’ultimo colpo.
• Gianluca Franzosg, medaglia d’argento nella Thai. Un risultato che conferma che l’Italia c’è anche dove il livello mondiale è ferocemente alto.
• Federica Travalusci, oro nella -50 kg. Imposizione totale, dominando tutte le avversarie. Una vittoria limpida, potente, esemplare.

Questi ragazzi sono più che atleti: sono modelli. Un esempio vivo per i nostri praticanti, per la nostra Italia.
E non posso non complimentarmi anche con il componente del Board Mondiale Wako M. Donato Milano, motore fondamentale di questo percorso; con il Presidente Riccardo Bergamini, impegnato in un processo di consolidamento straordinario della nostra federazione; con Massimo Casula, sempre sorridente ed entusiasta, nelle vesti di Team Manager; Roberto Capogna, coach capace di guidare e tenere alto il livello della nazionale; Manuel Doria, UDG, parte di quella macchina che rende possibile l’impossibile.
Ogni vittoria è metallo. Ma ogni presenza è valore.
Ogni atleta salito su quel tatami o in quel ring, con la maglia azzurra, ha già vinto.
La kickboxing oggi non è più VHS spedite per posta o due foto su di una rivista che esce una sola volta a bimestre.
È World Games, è il mondo che ci guarda.
È il nostro passo deciso verso l’Olimpo.