Al mio staff…
Se vi potessi insegnare qualcosa che ho imparato da allenatore, è che:

Non potete insegnare a qualcuno ad appartenere.

Puoi spiegargli come sferrare un calcio, come schivare un pugno, passare una guardia, come chiudere un triangolo, come respirare sotto la pressione. Puoi insegnargli a cadere, a rialzarsi, a rimettersi in guardia. Ma non puoi insegnargli a restare quando fa male. Non puoi insegnargli a svegliarsi all’alba per sistemare i tatami bagnati di sudore di qualcun altro. Non puoi insegnargli a chiudere la palestra alle undici di sera, quando tutto odora di sudore, di sangue, di lividi, di nastro adesivo strappato e di sogni mezzi rotti.

Arti Marziali e Sport da Combattimento - L’appartenenza non può essere insegnata! 1

Non puoi insegnargli ad appartenere.
Perché appartenere accade. O non accade.

E quando accade, ti prende lo stomaco come un uppercut che non avevi visto arrivare. Ti lascia senza fiato quando vedi uno dei tuoi ragazzi salire sul tatami tremando. Quando la ragazza che aveva paura di combattere ti guarda negli occhi e dice: “Ce la faccio”.
Quando restano. Quando cadono e si rialzano. Quando restano ancora.

Vi dico questo, a voi che siete lì ogni giorno, che respirate la stessa aria, la stessa polvere, che imparate a memoria i silenzi dei ragazzi prima di un match, che sapete leggere il tremito delle mani prima che chiamino il loro nome.
Vi dico questo, a voi che rimanete, che soffocate le delusioni come pillole amare, che ingoiate le sconfitte degli altri come se fossero vostre, che tornate a casa con i polsi rotti e il cuore pieno, che sapete quant’è difficile lavorare insieme.

Vi dico questo: le delusioni fanno male. A volte sembrano ferite che non si chiuderanno mai. Vi svegliate alle tre di notte pensando a cosa avreste potuto fare di diverso.
A volte siete voi a deludere. Sì, succede anche a noi, e quel sapore amaro non va più via.
A volte perderete persone. Alcune scivoleranno via senza un saluto, altre sbatteranno la porta. Alcuni ritorneranno anni dopo, con cicatrici nuove e occhi più stanchi, e vi diranno “grazie” senza dire nulla.

Allenare è questo. È perdere. È ritrovare. È scoprire che non siete qui per insegnare alle persone a combattere, ma a restare in piedi quando tutto sembra spingerle a terra.
È scoprire che gli amori veri, quelli che nascono in palestra, sono silenziosi.
E che alcuni amori finiscono.
Altri forse li vedrete nascere li…
Sono fatti di un passaggio di sguardi prima di un round, di un nastro stretto al polso, di un “ci sei” sussurrato in un abbraccio sudato.
Gli amori in palestra non gridano, non hanno necessariamente bisogno di storie su Instagram, non si vantano.
Gli amori in palestra si guardano e basta, e quando si allontanano, tornano sempre in un modo o nell’altro, perché la pelle si ricorda, perché il cuore riconosce.

Se vi potessi insegnare qualcosa, vi direi che allenare non è un lavoro. È una condanna dolce. È un tatuaggio invisibile che portate addosso, ogni volta che allacciate la cintura, ogni volta che chiudete le luci e restate da soli con i vostri pensieri sul tatami vuoto.
È la consapevolezza che non importa quanti titoli vincerete, quante medaglie metterete in bacheca, quanti post faranno like.
Importa quante persone saprete far crescere, quante vite saprete attraversare a volte stando attenti a non graffiarle e distruggerle, a quanta speranza e tempo saprete dare anche nei giorni in cui non ne avete più nemmeno per voi stessi.

E la verità, quella che nessuno vi dirà, è che qui dentro, ogni giorno, stiamo imparando a vivere.
Non impariamo le arti marziali per gareggiare.
Ci alleniamo per imparare a vivere.
Per imparare a respirare nella sconfitta.
Per imparare a non diventare stronzi quando vinciamo.
Per imparare a rispettare chi è diverso.
Per imparare a restare umani anche quando la fatica ci piega.

E alla fine, quando avrete fatto tutto, quando vi guarderete indietro e vedrete le migliaia di cinture allacciate, i migliaia di occhi che vi hanno guardato con speranza, scoprirete che tutto questo non era per loro.

Era per voi.

Perché l’appartenenza non si insegna.
Si vive.

E se vi potessi insegnare qualcosa, vi direi: restate. Anche quando fa male. Anche quando non è giusto. Anche quando siete stanchi.
Anche quando dovrete ingoiare dei sassi, senza dire nulla, facendo finta di niente.

Restate, perché alla fine, chi resta ha già vinto.

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