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La paura indossa una cintura bianca

La paura non è un difetto.
Non è un ostacolo.
Non è un nemico.

La paura è una compagna di viaggio.
Presente. Costante. Fastidiosa come un sassolino nella scarpa.
Ma vera.
Più vera di qualsiasi post motivazionale.

La prima paura, nel nostro mondo, arriva prima del primo pugno.
Prima ancora del primo strangolamento.
Arriva quando firmi il modulo.
Quando ti allacci una cintura bianca.
La più complicata da indossare.
Perché è l’unica che non prova nulla.
Dice solo: “Non so, ma sono qui.

E se non fossi capace?

Siamo cresciuti in una scuola dove l’interrogazione è una condanna.
Dove il voto non verifica: giudica.
Poi siamo finiti in un mondo che misura il valore in follower, fatturato e forma fisica.

Così finisci per avere paura di iniziare qualcosa che ti piace.
Non per paura del dolore.
Ma per paura di non essere bravo.
Per paura di essere visto.
Per paura di essere giudicato.

Ti dici: “E se non fa per me?
Tradotto: ho paura di fallire davanti a chi guarda.

Ma qui non si viene per dimostrare.
Si viene per diventare.

La cintura bianca è un manifesto.
Dice: “Qui si sbaglia. E va bene così.

Nessuno ti applaude quando indossi la cintura bianca.
Nessuno ti posta sui social.
Nessuno ti chiede l’autografo.

La cintura bianca è la resa.
L’ammissione.
La dichiarazione pubblica:

Accetto di essere mediocre, o addirittura scarso, per un tempo indefinito. Ma inizio lo stesso.

La paura qui non la combatti.
La conosci.
La ascolti.
E te la porti appresso.

Viviamo in una società improntata sul PIL.
Se non produci di più dell’anno scorso, sei in crisi.
Se non consumi più del tuo amico, sei povero.
Se non migliori ogni tre post, sei rotto.

Ecco perché, quando ti alleni e un altro fa meglio, ti senti di meno.
Ma è una trappola.

Il valore di chi è più veloce non toglie nulla al tuo.
La tecnica di chi va più avanti non cancella il tuo sforzo.
Il dolore che provi in silenzio pesa quanto l’oro.

I progressi, a volte, non si vedono. Ma ci sono.
A volte l’unico progresso è… resistere.

Allenarsi quando non ti va.
Essere costante quando tutto ti spinge via.
Continuare senza risultati è già un risultato.
Rallentare è un progresso.
Fermarsi per ripartire, lo è ancora di più.

Il problema è che ci hanno insegnato che se suoni il piano, devi diventare pianista.
Se imbracci la chitarra, devi salire su un palco.
Se fai arti marziali, devi vincere.

E invece puoi farlo solo perché ti fa stare bene.
Perché ti piace.
Punto.

C’è poi una linea sottile, riservata a pochi, tra passione e ossessione: si chiama agonismo.

Chi sale su un ring, lo fa per superarsi.
Per cercare un senso.
Lo sport ti misura.
La gara ti restituisce uno specchio.

Ma non tutti devono competere.
E chi lo fa, spesso scopre una verità scomoda:
la paura delle aspettative.

La pressione cresce quando passi dall’amatoriale al dilettantismo.
Poi ancora al cosiddetto “professionismo”.
Che nel nostro sport è quasi sempre una bugia.

I veri professionisti sono pochissimi.
Quelli che vivono davvero di questo.
Che pagano bollette e mutuo con i match.
Spesso costretti a cercare circuiti esteri.
Che lavorano full time e si allenano di notte.
E va bene così.

Perché la vittoria non è un titolo.
Allenarsi non salva. Ma cambia.

Qui non c’è redenzione.
Non c’è catarsi.

C’è solo ripetizione.
Un colpo.
Un altro.
Una leva.
Un passaggio.
Giorni uguali a se stessi che scavano dentro e tirano fuori il vero.

Quello che resta quando crolli.
Quello che sei, nonostante tutto.

La paura non si elimina.
Si riconosce.
Si accetta.
Si tiene per mano.

Perché la paura non è solo ansia.
È istinto.
È segnale.
È protezione.

È quella voce che ti salva dal vuoto.
Che ti fa guardare a destra e sinistra prima di attraversare, anche se credi nel destino.
La paura ti tiene vivo.

Nel combattimento non la scacci via.
Le dai un nome.
E ci combatti fianco a fianco.

E allora, come si diceva ne Il Trono di Spade:

Può un uomo che ha paura essere coraggioso?
Sì. È la sua unica possibilità.

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